lunedì 3 novembre 2008

Se la scuola non ha tempo per le mamme

di Alessandra Casarico e Paola Profeta, tratto dal lavoce.info
Il tempo pieno è un servizio educativo importante e un punto fermo nell'organizzazione delle famiglie italiane, in particolare quando la mamma lavora. Esiste un legame stretto tra questa modalità d'orario nella scuola dell'infanzia e primaria e l'occupazione femminile. Le donne che escono dal mercato del lavoro per le difficoltà a conciliare vita lavorativa e familiare, difficilmente riescono poi a rientrare. Il tasso di occupazione delle madri italiane è già molto basso. Non abbiamo certo bisogno di politiche che disincentivino ulteriormente il lavoro femminile.

Il tempo pieno, nella scuola primaria rappresenta una realtà diffusa per molte famiglie italiane del Nord, in particolare nelle grandi città: secondo i dati del ministero della Pubblica istruzione, nell’anno scolastico 2006/07 nel Nord-Ovest il 45,5 per cento dei bambini delle scuole pubbliche primarie ha frequentato la scuola per quaranta ore settimanali, con punte superiori al 90 per cento per esempio a Milano, nel Sud e Isole solo il 6,8 per cento.
Il tempo pieno rappresenta un servizio educativo importante e un punto fermo nell’organizzazione del tempo delle famiglie italiane, in particolare quando la mamma lavora. Il legame tra tempo pieno nella scuola primaria e occupazione femminile è molto stretto. (1) Inoltre, il tempo pieno nella scuola primaria promuove l’
uguaglianza nelle opportunità.

INCERTEZZE DA DECRETO
Quale sarà il futuro del tempo pieno in seguito al decreto legge Gelmini (n. 137 dell’1/9/2008) appena approvato in Senato?
In un clima di confusione politica, con l’opposizione che dichiara che il tempo pieno è a rischio e il governo preoccupato di garantire che sarà addirittura aumentato, cerchiamo di capire che cosa dice il decreto.
L’articolo 4 del decreto legge Gelmini prevede al primo comma l’introduzione nella scuola primaria del maestro unico al quale è assegnata una classe “funzionante con orario di 24 ore settimanali”. L’articolo procede chiarendo che “nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola”. Due punti ci sembrano importanti: (i) l’attività didattica è fissata in 24 ore settimanali; (ii) si lascia aperta la possibilità di un prolungamento dell’orario scolastico identificato come “articolazione del tempo-scuola”. Si intende con questo il tempo pieno, oppure attività non didattiche svolte a scuola in aggiunta a quelle obbligatorie? A chi saranno affidate? Quali le risorse per finanziare l’orario, a questo punto, aggiuntivo? Le famiglie italiane meritano maggiore chiarezza in proposito.
La lettura del piano programmatico predisposto con riferimento all’articolo 64 “Disposizioni in materia di organizzazione scolastica” del decreto legge 25/6/2008 n. 112 convertito dalla legge 6/8/2008 n. 133 non aiuta a capire fino in fondo che cosa succederà all’orario nella scuola primaria. E in più aggiunge dubbi sui tempi della scuola dell’infanzia.
Il piano programmatico si propone di rivedere i piani di studio e l’orario scolastico all’insegna dell’“essenzialità”. Uno dei criteri e principi guida è “la sostenibilità per gli studenti del carico orario e della dimensione quantitativa dei piani di studio, opportunamente riducendo l’eccessiva espansione degli insegnamenti e gli assetti orari dilatati, che si traducono in un impegno dispersivo e poco produttivo (…)”. In altri termini, il piano sottolinea con una certa insistenza la necessità di riorganizzare gli orari scolastici: orario di 24 ore settimanali e maestro unico (che insegnerebbe anche l’inglese, previo corso di 150 ore) sono fortemente proposti come il modello didattico ed educativo di maggiore efficacia. Come interpretare allora le più recenti rassicurazioni verbali del governo circa il mantenimento dello stesso orario attuale, che potrebbe addirittura essere esteso dove non c’è? Forse è una risposta politica alle preoccupazioni di tante famiglie - e di tanti elettori ? Nel contesto dell’autonomia scolastica, il piano programmatico ammette opzioni organizzative alternative di 27 o 30 ore o 40 se aggiungiamo le ore mensa, ma la loro fattibilità resta vincolata alle risorse a disposizione delle scuole stesse, su cui a priori non c’è nessuna garanzia.
Se le garanzie fornite a parole si tradurranno in risorse effettive, bene. Per il momento però è evidente lo scollamento tra ciò che è scritto nel decreto e come il governo lo presenta. Circola per esempio l’idea che i docenti che risulterebbero in esubero in seguito all’attribuzione delle classi a un unico maestro saranno riallocati nell’orario aggiuntivo. Ma questo meccanismo non compare nei documenti ufficiali.
Ricordiamoci comunque che non è solo una questione di orario. Conta anche il contenuto. Il tempo pieno deve rappresentare un servizio educativo di qualità e non un “dopo-scuola”.

USCITA SENZA RITORNO
Inoltre, è sorprendente notare che mentre sull’università e sulla scuola primaria il dibattito è acceso, i cambiamenti programmati per i tempi della scuola dell’infanzia (“l’orario obbligatorio delle attività educative (…) si svolge anche solamente nella fascia antimeridiana”) sono, per il momento, rimasti ai margini della discussione. Se gli orari scolastici hanno un legame con l’occupazione femminile, quelli relativi alla scuola dell’infanzia possono essere particolarmente importanti. Le difficoltà di conciliazione delle donne tra vita lavorativa e familiare nei primi anni di vita del bambino possono contribuire a uscite dal mercato del lavoro (lavoratrici scoraggiate) tipicamente non reversibili. Più tardi si è in condizioni di rientrare nel mercato del lavoro, più è difficile farlo.
In Italia non abbiamo certo bisogno di politiche che disincentivino il lavoro femminile delle madri. Come illustra il grafico per la coorte di età tra i 25 e i 49 anni, il tasso di occupazione delle madri italiane è inferiore al tasso di occupazione femminile di tutta la coorte. Il divario inoltre è più ampio all’aumentare del numero di figli. Il fenomeno si verifica anche negli altri paesi europei, ma una peculiarità tutta italiana è il fatto che il tasso di occupazione delle madri non si riavvicini a quello femminile dell’intera coorte, peraltro in Italia ai livelli più bassi tra i paesi europei, all’aumentare dell’età del bambino. Questo suggerisce che sia molto più difficile per le madri italiane rientrare al lavoro dopo la maternità. Perché? La struttura del mercato del lavoro, la cultura della società e delle imprese giocano un ruolo importante. Ma anche le istituzioni hanno la loro responsabilità, la carenza di servizi per la prima infanzia in primo luogo: in Italia la spesa per l’infanzia per la fascia di età tra 0 e 3 anni è pari solo allo 0,1 per cento del Pil, contro lo 0,5 per cento della Francia e lo 0,8 per cento della Svezia, con tassi di copertura pari al 6,3 per cento dei bambini, contro il 28 per cento della Francia e il 39,5 per cento della Svezia.
Il tempo pieno per tutti nella scuola pubblica materna e primaria è, in questo contesto, una delle poche misure istituzionali a favore delle mamme lavoratrici. Dovrebbe essere potenziato, in particolare al Sud, invece che ridotto, se non vogliamo contribuire alla riduzione dei tassi di occupazione femminile, in particolare delle madri, già così bassi.

(1) Si veda in proposito il nostro articolo su Il Sole 24Ore del 29/10/2008.

Questo il testo in pdf.

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